Sapere cosa si vuole
Lei è professore di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università di Berna. Qual è stato il suo percorso? Ha pianificato la sua carriera?
Sapevo di voler lavorare in ambito accademico e speravo di ottenere una cattedra un giorno. Il resto è venuto da sé, anche perché non poteva nemmeno essere pianificato nei dettagli. In generale, la cosa più importante è sapere cosa si vuole. Le singole tappe dipendono da molti fattori che di solito non è possibile o non è necessario pianificare.
Quindi l’orientamento professionale e di carriera non è necessario?
No, non è così. L’orientamento di carriera può essere molto utile anche se non permette di prevedere tutte le tappe. Vale in ogni caso la pena porsi alcuni interrogativi fondamentali: cosa è importante per me? Che tipo di vita voglio? In cosa sono bravo/a? Che tipo di lavoro mi piace? Che ruolo ha il lavoro nella mia vita? Alcuni studi mostrano che le persone più soddisfatte sono quelle che fanno ciò che è in sintonia con i loro valori. In altre parole: il nostro successo nella carriera dipende dal raggiungimento degli obiettivi che riteniamo importanti.
E se questi valori e obiettivi cambiano nel corso del tempo?
È praticamente inevitabile. Ecco perché è importante fare un punto della situazione più volte nel corso della vita. Lo si può fare per esempio nelle tappe «classiche» della vita, come il diploma o la laurea, il ritorno al lavoro dopo una pausa per ragioni familiari, la disoccupazione, l’uscita di casa dei figli, il pensionamento. Si può far capo a una consulenza anche quando le circostanze esterne cambiano o quando sul lavoro si diffonde un senso di insoddisfazione. L’ideale sarebbe fare un punto ogni due o tre anni – da soli, con una persona di fiducia o con un professionista.
Lei studia lo sviluppo della carriera lungo l’arco della vita. Cosa determina il successo o il fallimento di una carriera professionale?
Lavoro con il modello delle risorse per la carriera focalizzato sui fattori che contribuiscono al successo della carriera. Il primo passo è chiarire la definizione personale di successo o fallimento. Avere successo non significa necessariamente percepire un ottimo stipendio. Può anche significare svolgere un lavoro importante per la società o condurre una vita equilibrata. Il secondo passo si concentra invece sui fattori che favoriscono o ostacolano il raggiungimento dell’obiettivo.
Quali sono i fattori che aiutano a raggiungere l’obiettivo?
Prima di tutto le conoscenze e le competenze, sia professionali che extraprofessionali. Ci sono poi le risorse legate all’ambiente, come il sostegno del datore di lavoro, della famiglia e degli amici. Hanno però un peso importante anche i fattori psicologici che incidono sulla motivazione, come l’autostima e la volontà d’azione. Se rifletto regolarmente su ciò che voglio davvero e mi chiedo se sono ancora sulla strada giusta, posso sviluppare e coltivare varie risorse e costruire il mio percorso professionale in modo proattivo.
Le attività e gli impegni extraprofessionali come il volontariato, la politica o lo sport concorrono alla costruzione del percorso professionale?
Le attività e gli impegni extraprofessionali possono concorrere alla definizione personale di successo e possono rappresentare un criterio di riuscita. Inoltre, in un contesto extralavorativo si possono sviluppare risorse utili anche per l’attività professionale. Mi sembra importante in particolare riflettere sul modo in cui possiamo conciliare attività extraprofessionali e lavoro. Quando cominciamo a pianificare, è meglio iniziare dagli aspetti generali per poi passare a quelli più concreti, cioè dobbiamo dapprima chiederci cosa vogliamo fare e poi come possiamo raggiungere l’obiettivo nel contesto in cui ci troviamo.
Viamia
Viamia è un’offerta gratuita di consulenza e valutazione professionale sviluppata dalla Confederazione in collaborazione con i Cantoni. L’offerta utilizza i modelli elaborati dal team del prof. Andreas Hirschi dell’Università di Berna. Gli interessati possono trovare maggiori informazioni sul sito viamia.ch o contattare l’ufficio dell’orientamento professionale del loro Cantone di residenza. (zuk)
Le donne scelgono spesso di lavorare part-time per conciliare meglio lavoro e famiglia. La maternità implica tuttora un’interruzione della carriera?
Spesso sì. Secondo le statistiche, nelle coppie con figli il modello più diffuso è «donna part-time, uomo a tempo pieno». Raramente si osservano altri modelli. Questo comporta sovente uno svantaggio a livello di carriera. Molte donne scendono a compromessi e barattano la flessibilità con una retribuzione minore e la rinuncia all’avanzamento di carriera. Alcuni studi dimostrano che in linea di massima le donne danno meno valore allo status sociale, allo stipendio e al reddito. Questa tendenza è più marcata se hanno figli. Inoltre, se hanno già un desiderio di maternità quando scelgono una professione o pianificano la carriera, le giovani donne tendono ad autolimitarsi.
Come si può contrastare questo fenomeno?
Si può intervenire sia a livello individuale sia a livello sociale. Molto dipende dai ruoli di genere. La Svizzera, pur essendo un paese occidentale ricco, è ancora molto conservatrice su questo punto. La concezione del ruolo di genere tradizionalmente associato alla donna è molto radicata. D’altro canto, anche le aziende e le organizzazioni hanno una grande influenza: possono ammettere forme di lavoro flessibili, sganciare l’avanzamento professionale dalla percentuale lavorativa e concedere congedi. Più un’organizzazione è flessibile, meno penalizza le donne che non hanno una flessibilità sufficiente per lo sviluppo della loro carriera.
E i datori di lavoro? Hanno anche loro interesse a concedere maggiore flessibilità ai propri dipendenti?
I datori di lavoro che permettono ai propri dipendenti di conciliare meglio il lavoro con gli impegni familiari o extraprofessionali sono più attrattivi. Non solo attirano più manodopera, ma riescono a fidelizzare anche quella che altrimenti lascerebbe l’azienda. Questo porta a una maggiore diversità. Più l’azienda applica regole e vincoli severi, più è probabile che attragga solo un certo tipo di persone. I datori di lavoro flessibili, invece, attraggono persone molto diverse, motivate e con competenze extraprofessionali variate.
La flessibilità, però, ha anche un costo per il datore di lavoro.
Naturalmente. La flessibilità comporta anche un dispendio di tempo e di denaro, per esempio perché implica uno sforzo maggiore a livello di coordinamento. Tuttavia, spesso la flessibilità è ostacolata più da motivi legati alla cultura aziendale che non da motivi fattuali. Molti superiori gerarchici pensano, riallacciandosi alla propria esperienza, che l’unico modo per avere successo è lavorare 70 ore alla settimana. A volte non sono nemmeno consapevoli di questa loro convinzione.
Come si può cambiare la cultura aziendale?
Se la flessibilità è ostacolata dalla cultura aziendale, tocca ai dirigenti intervenire. È necessario formarli e indurli a rimettere in discussione pregiudizi e convinzioni, come quella secondo cui i dipendenti che lavorano part-time sono meno motivati di quelli a tempo pieno. Inoltre, bisognerebbe rivedere i criteri di valutazione: oltre che in base al rendimento del gruppo, i dirigenti dovrebbero essere valutati in base alla loro disponibilità a concedere il lavoro a tempo parziale. Va detto infatti che il lavoro part-time è ancora stigmatizzato sebbene permetta ai lavoratori di ottimizzare il proprio rendimento.
Quali sono i fattori di motivazione sul lavoro?
Vi sono motivazioni estrinseche e intrinseche. Le motivazioni estrinseche rinviano alla remunerazione e alla sicurezza, ma anche al riconoscimento e all’apprezzamento. Quelle intrinseche risultano dal significato e dall’importanza del lavoro, dalla sua corrispondenza con le capacità e gli interessi del dipendente. Contano però anche le opportunità di sviluppo e la percezione del lavoro come qualcosa di entusiasmante e stimolante. Infine, la motivazione può venire da aspetti sociali, come il legame con i colleghi di lavoro. Un legame che rischia di sparire nel mondo digitale.
La crescente digitalizzazione ha quindi un impatto anche sulla cultura organizzativa?
Sì, la digitalizzazione sta portando un cambiamento culturale. Sebbene consenta una grande flessibilità, la tecnologia ha anche un lato negativo, la reperibilità permanente. È un aspetto che va gestito con grande consapevolezza. Non ci si può aspettare che i dipendenti siano disponibili 24 ore su 24 o che rispondano alle mail il sabato. I dirigenti devono comunicarlo e dare l’esempio evitando di inviare e-mail di notte o nei fine settimana. Il lavoro flessibile non è un regalo dell’organizzazione, bensì una componente naturale dell’organizzazione del lavoro.
C’è il rischio che chi lavora poco in sede si identifichi meno con il proprio datore di lavoro. Cosa significa questo per la cultura organizzativa?
Gli studi affidabili in merito sono pochi. La tendenza generale indica che le persone si definiscono meno attraverso il lavoro e che si identificano meno con il datore di lavoro rispetto al passato. D’altro canto, sono anche meno seguiti dal datore di lavoro e sono direttamente responsabili del proprio percorso professionale. Questo indebolisce il legame emotivo tra i dipendenti e il datore di lavoro, una tendenza rafforzata dalla digitalizzazione. Bisogna quindi riflettere attentamente su ciò che è meglio per un’organizzazione, un reparto, un team o un certo tipo di lavoro.
I collaboratori del nostro tribunale provengono da tutta la Svizzera; molti di loro non vivono nemmeno a San Gallo. Come possiamo rafforzare il senso di appartenenza?
Secondo me è importante prima di tutto instaurare relazioni personali. Questo può avvenire anche online, per esempio dedicando un momento agli aspetti personali durante le riunioni o organizzando pause caffè virtuali senza però rinunciare agli eventi in presenza. In questo senso la comunicazione della dirigenza ha un ruolo importante: deve trasmettere la cultura organizzativa e mostrare come il contributo individuale sia collegato al contributo degli altri.
L’importanza del lavoro cambia nel corso della vita?
No. Quello che cambia è ciò che le persone ritengono importante nel lavoro. Se per i giovani l’obiettivo è costruire qualcosa, fare carriera in senso tradizionale, per i lavoratori più maturi contano di più le esperienze positive e il senso del lavoro. Tendono a fare ciò che li gratifica di più e vogliono trasmettere qualcosa. Ma questo non significa che considerano il lavoro meno importante di prima.
Per molti il pensionamento marca una cesura. Quali sono le opportunità e i rischi di questa fase della vita?
La netta distinzione tra vita attiva e pensionamento sta scomparendo: sempre più persone svolgono un'attività lavorativa anche in età avanzata, a tempo parziale o come lavoratori autonomi non da ultimo a causa del peggioramento della previdenza professionale. Molti si dedicano alla cura di familiari, genitori anziani o nipotini. Oggi, la speranza di vita media dopo il pensionamento è di una ventina di anni: un tempo troppo lungo per non fare nulla.
Quindi la carriera non finisce con il pensionamento?
Alcuni continuano a svolgere il proprio lavoro magari in una forma leggermente diversa, altri iniziano qualcosa di completamente nuovo. Comunque sia, pensionamento non fa rima con inoperosità, per cui vale la pena prepararsi bene. Le persone particolarmente orientate al lavoro dovrebbero iniziare a dare più peso alle attività extraprofessionali circa cinque anni prima del pensionamento. Secondo alcuni ricercatori, più le persone gestiscono in modo fluido questa transizione e meglio pianificano la loro vita e il loro percorso professionale, più sono soddisfatte e felici.
Guardando al futuro, come sarà il nostro mondo del lavoro tra dieci anni? Quali competenze saranno richieste?
Il mondo del lavoro che conosciamo cambierà radicalmente, soprattutto a causa della digitalizzazione. Ma è difficile prevedere come sarà o quali competenze saranno richieste tra dieci anni. Proprio perché ci troviamo in una fase di grandi e profondi cambiamenti, è bene impostare la carriera in modo proattivo anziché attendista. Questo ci permette tra l’altro di sviluppare una certa fiducia nella nostra capacità di affrontare i cambiamenti.
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