«Essere coraggiosi, anche quando è scomodo»
Signor Maidowski, perché i giudici dovrebbero occuparsi di questioni etiche?
Le questioni etiche sono quasi sempre rilevanti se si parla di giurisprudenza; basti pensare a quando noi giudici ci troviamo a dover decidere come utilizzare il margine di apprezzamento che ci viene offerto, per esempio, dal diritto processuale. Qualsiasi discorso attorno all’etica ci dà l’opportunità di confrontarci direttamente con noi stessi, ed è qualcosa di cui ciascuno di noi ha bisogno.
Si può parlare di «giusto» e «sbagliato» riferendosi a questioni etiche? Non ruota tutto piuttosto intorno alla concezione del mondo e al margine di apprezzamento dei giudici?
La verità dovrebbe trovarsi approssimativamente nel mezzo. Se da un lato non si può affermare che l’etica sia qualcosa di completamente arbitrario, specialmente quando si parla dei principi etici di una professione che, come quella di giudice, è fortemente influenzata dal diritto costituzionale e da leggi di rango inferiore, dove la massima secondo cui sia meglio operare in modo rapido che corretto, talvolta spacciata come principio etico, non trova certo un vero fondamento, dall’altro va detto che l’etica è anche qualcosa di molto personale e che, in questo contesto, è alla nostra coscienza che spetta il ruolo di giudice; e il fatto che l’approccio nei confronti di questa professione sia diverso da persona a persona non solo è normale, ma è ciò che conferisce alla giustizia la sua dimensione umana e che la rende multiforme e resiliente.
Lei è stato per lungo tempo giudice in materia d’asilo. Con il gran numero di richiedenti che abbiamo attualmente, non è forse un lusso inutile rincorrere principi etici?
Assolutamente no. D’altronde, non è tanto quando il cielo è sereno che si colgono i frutti di una giustizia improntata a principi etici, quanto piuttosto quando si profilano nubi all’orizzonte. I giudici non ragionano per gruppi di casi, ma si pronunciano sempre su casi singoli; e, per quanto la giurisprudenza in materia possa essere consistente, ogni singola sentenza deve essere calibrata sulle parti di volta in volta coinvolte. Nell’ambito del diritto in materia d’asilo, tuttavia, si tende sempre più a ragionare per gruppi di casi, ed è quindi proprio in questo settore che rincorrere principi etici può dare i suoi frutti.
Al di là del diritto d’asilo, vi sono anche altre situazioni eticamente delicate per i giudici, dovute ad esempio alle pressioni esercitate dall’opinione pubblica, dagli ambienti politici o dalle parti in causa. Come fare per affrontarle?
Specialmente nei casi difficili da giudicare, la società e gli ambienti politici hanno spesso aspettative molto concrete, e non di rado anche antitetiche, nei confronti di un tribunale; ci fanno chiaramente capire quale sarebbe la decisione «giusta» e quale invece quella «sbagliata». Ciò accade, ad esempio, nell’ambito di processi penali per crimini che hanno scosso l’opinione pubblica o di dibattiti di grande attualità, come quello attorno al diritto in materia di rifugiati. Un tribunale deve saper resistere a questo tipo di pressioni. È comunque un bene che l’opinione pubblica sia consapevole di quanto il diritto incida sulle nostre vite e di quanto possa essere importante il ruolo della giustizia.
In quali casi la giustizia è chiamata a difendersi dalle pressioni esterne?
Se dietro alle pressioni dell’opinione pubblica o degli ambienti politici si cela un malinteso circa il ruolo della giustizia, allora dobbiamo reagire. In passato si diceva che un giudice parla solo attraverso le sue sentenze. Oggi questo pensiero è superato. Dobbiamo spiegare qual è il nostro ruolo all’interno dello Stato e talvolta anche il motivo delle nostre decisioni. E questo, a maggior ragione, all’interno di un sistema in cui i giudici sono eletti da rappresentanti del Popolo – anche i magistrati sono al servizio del Popolo, ma non ricevono un mandato imperativo dalle forze politiche che hanno sostenuto la loro elezione. Del resto, è del tutto normale che anche le parti in causa si facciano un’idea precisa circa l’esito del procedimento. Se le aspettative sono sproporzionate o troppo estreme dal punto di vista dei contenuti, esiste però sempre la possibilità di discuterne direttamente con le parti.
«A prescindere dal modo in cui vogliamo chiamarla, quello attorno all’etica è un dibattito che dovrebbe essere alimentato costantemente.»
Ulrich Maidowski
Quale consiglio può dare ai suoi colleghi che si trovano ad affrontare situazioni eticamente delicate?
Per me le cose che contano sono tre. In primo luogo, in questi casi occorre tempo per prendere una decisione professionale e pienamente consapevole; non bisognerebbe dunque lasciarsi mettere fretta al punto da compromettere la qualità delle decisioni. In secondo luogo, sulla base della mia esperienza, in situazioni delicate esistono pochissime persone in grado di prendere da sole la decisione migliore; io in questi casi ho bisogno di confrontarmi con altre persone, con i colleghi che stimo e di cui mi fido – e sono del parere che non sia importante, e a volte nemmeno un bene, che loro la pensino generalmente come me. In terzo luogo, ad affrontare situazioni eticamente delicate ci si può e ci si dovrebbe preparare mentalmente.
Ha lavorato in vari tribunali e in ambiti diversi (diritto delle costruzioni, tutela dei monumenti, diritto degli stranieri, diritto in materia d’asilo) e oggi è giudice presso la Corte costituzionale federale tedesca. Ha notato delle differenze nell’approcciare la questione dell’etica giudiziaria?
Le differenze sono meno rilevanti di quanto si potrebbe credere. In alcuni ambiti del diritto è però più difficile mantenere il distacco necessario da tutte le parti in causa. Per di più, vi sono delle decisioni che, pur riguardando un caso singolo, possono avere un impatto su un gran numero di altri casi, e queste decisioni possiedono una portata più ampia che va tenuta a mente; la sentenza, infatti, non interessa soltanto le parti in causa, ma una cerchia di destinatari ben più ampia.
La sua idea di etica giudiziaria è cambiata nel corso del tempo?
Sono giudice da 28 anni e ho cambiato spesso posto di lavoro, cercando il contatto con i colleghi anche al di fuori dei confini del mio Paese. Mi sono presto accorto che la mia idea iniziale di che cosa fosse un buon giudice non fosse l’unica giusta. Credo tuttora che vi siano atteggiamenti comuni che i giudici condividono o dovrebbero condividere, ma ho imparato che possono esistere strade molto diverse per raggiungere una stessa meta. Se vuole, i molti contatti con i colleghi, i cittadini e gli altri attori coinvolti mi hanno reso un po’ più aperto e un po’ più modesto. Ma su un punto non ho mai cambiato opinione: a prescindere dal modo in cui vogliamo chiamarla, quello attorno all’etica è un dibattito che dovrebbe essere alimentato costantemente.
Lei afferma che una giurisprudenza guidata da principi etici richiede coraggio. Che cosa può fare un giudice per pronunciare sentenze di qualità, accurate e imparziali anche in situazioni delicate?
Qualsiasi decisione che, mentre la pronunciamo e motiviamo, non soddisfa la nostra coscienza ricadrà un giorno o l’altro su di noi; o perché ci accorgeremo improvvisamente di aver creato un precedente da cui non riusciamo più a smarcarci o perché avremo anche «solo» la sensazione di non essere stati all’altezza delle aspettative che ci eravamo creati, di aver in qualche modo fallito – ciò, oltre a essere scoraggiante, mette in cattiva luce tutta la magistratura. E questa sensazione si fa ancora più netta se si pensa che sarebbe bastato un semplicissimo ragionamento per prevenirla: noi giudici dobbiamo rispondere soltanto dalla legge, ma dobbiamo farlo al cento per cento. Per quanto utili potrebbero rilevarsi, non possiamo farci influenzare dalle posizioni politiche o sociali che il legislatore non ha tramutato in diritto vigente.
Che cosa intende con «utili»?
Intendo che alcune prese di posizione possono alimentare la riflessione sulla legge, che ci inducono ad approfondire le obiezioni critiche, a scavare più in profondità. Del resto, il coraggio inizia ad essere necessario soltanto quando la legge ci offre diverse possibilità, come succede proprio nel diritto processuale. Chi di fronte a queste possibilità sceglie sempre la via più comoda, non potrà guardarsi allo specchio e sentirsi coraggioso. Ma è proprio questo che ci motiva, e che la società ci chiede: essere coraggiosi, anche quando è scomodo.
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