La diversità fa bene alla giurisprudenza

A che punto è il Tribunale amministrativo federale in fatto di parità? La presidente del TAF Marianne Ryter parla di diversità, compiti dei superiori, esperienze personali e ruolo della giustizia.

21.09.2021 - Katharina Zürcher

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Ritratto di Marianne Ryter
La Presidente della Corte Marianne Ryter. Foto: Katharina Zürcher

Marianne Ryter, al Tribunale amministrativo federale la quota di donne è attualmente del 58 per cento e tra i giudici del 46 per cento. Non è che ci sarà presto bisogno di incentivare la presenza maschile?

No. Il nostro obiettivo come datore di lavoro dev’essere in generale quello di garantire la diversità. E questa non la si può quantificare in un numero concreto. Lo stesso vale per i giudici: chiaro, la parità fra sessi è importante, ma altrettanto importante è il diverso bagaglio di esperienze personali e professionali che ciascuno di noi porta con sé. Alla giurisprudenza fa bene che vi sia la massima diversità possibile quanto ad esperienza professionale, provenienza, età, identità, sesso, situazione famigliare, ecc.

Che vantaggi offre lavorare in team diversificati?

La diversità porta sempre a risultati migliori. Ognuno ha una visione del mondo fondata sulle proprie esperienze: più modi di vedere diversi confluiscono nel dialogo, migliori sono i risultati o le decisioni che si raggiungono. Personalmente, trovo meno stimolante - e per finire improduttivo - restare sempre nella propria bolla: non porta niente né sul piano personale né nel caso pratico.

Da sei anni e mezzo fa parte della direzione del TAF e da due anni e mezzo ne è la presidente. Che esperienze ha fatto in questi posti di comando?

Sono stata fortunata a non essere mai stata la sola donna nella Commissione amministrativa nel periodo in cui ne ho fatto parte. È importante questo, perché altrimenti si è subito ridotti a un certo ruolo, ad esempio quello di dover fare da rappresentante di categoria. La cosa non vale del resto solo per il genere, ma per tutto ciò che il singolo incarna all’interno di un team o di un consesso.

Le donne sono ancora nettamente sottorappresentate nei posti di direzione. Devono magari semplicemente osare di più?

Dare visibilità alle donne a tutti i livelli ed incoraggiarle ad assumere funzioni direttive è anche compito dei dirigenti. I responsabili dovrebbero motivare scientemente il proprio personale femminile a postulare per nuovi posti, assumere compiti supplementari, seguire corsi di perfezionamento - il che, nel caso delle cancelliere, può ad esempio essere candidarsi a un posto di giudice, conseguire un CAS in magistratura, il brevetto di avvocato o un dottorato. Trovo inoltre importante che in sede di valutazione i superiori mostrino sensibilità per la particolare situazione in cui si trovano – soprattutto – le donne, che sono poi quelle che in prevalenza lavorano a tempo parziale.

«Dare visibilità alle donne a tutti i livelli ed incoraggiarle ad assumere funzioni direttive è anche compito dei dirigenti.»

Marianne Ryter

Che nesso c’è fra percentuale di lavoro e valutazione?

Le persone con percentuali di lavoro ridotte si vedono spesso assegnare casi più semplici o hanno bisogno di termini più lunghi per trattare un dossier, per cui la loro prestazione rischia di essere meno «notata» e quindi di essere presa meno in considerazione ed apprezzata. Hanno, insomma, meno occasioni per brillare. L’assunzione di funzioni supplementari o la motivazione ad approfondire gli studi è spesso inconsciamente abbinata alla percentuale di lavoro, cosa che non ritengo giusta. Occorre che i superiori siano espressamente sensibilizzati al riguardo.

Lei stessa si è impegnata precocemente a favore della parità dei sessi. Cosa la motivava?

Quando ero all’università c’era un forte movimento femminile: il tema dell’uguaglianza era molto presente. Ho inoltre avuto subito la possibilità di mettere in pratica le mie conoscenze giuridiche presso il consultorio bernese Infra. Per dieci anni ho consigliato le donne su questioni giuridiche legate alla violenza, alla separazione, alla custodia dei figli, agli aspetti economici del divorzio. E lì ho potuto anche constatare il vantaggio che spesso gli uomini avevano in fatto di conoscenze, cosa che mi ha reso ancora più consapevole di quanto fosse importante per una donna reggersi sulle sue gambe. In margine a questo lavoro di consulenza ho poi anche seduto per sette anni nella commissione per le pari opportunità uomo-donna del Canton Berna, che ho presieduto per due anni e in cui si è discusso molto specificamente di come le competenze acquisite dalle donne nella cura dei figli e nella gestione dell’economia domestica potessero essere declinate in chiave professionale. In quell’ambito ho anche potuto collaborare – insieme a un uomo e a un’altra collega –- alla redazione del cosiddetto «rapporto sulla violenza», altra esperienza estremamente arricchente ed istruttiva.

Quanto è stato facile o difficile conciliare famiglia e carriera?

Dopo gli studi ho cominciato a lavorare a tempo parziale, da una parte perché avevo molti interessi diversi, dall’altra per poter contemporaneamente scrivere la mia tesi di dottorato. Eppoi sono arrivati i miei due figli, per cui all’epoca la mia idea era dedicare metà del mio tempo ai bambini e l’altra alla professione, ma mi sono presto accorta che avevo bisogno di una percentuale lavorativa di almeno il 60 per cento per poter farmi sufficientemente dentro sul lavoro. Così i bambini sono andati al nido e hanno avuto altri adulti di riferimento, il che mi ha permesso di allentare un po’ la presa. È comunque inevitabile: l’impegno professionale resta una sfida e pone dinanzi a decisioni non sempre facili, anche dal punto di vista emotivo.

A 50 anni dal voto alle donne la parità è ancora tema di discussione. Che contributo può dare la giustizia in proposito?

La giustizia non dovrebbe mai fare politica – neanche a favore della parità, ma deve però vegliare a che le decisioni prese dalla politica siano attuate e implementate. Penso alle questioni legate alla parità salariale o all’esempio a noi tutti più noto: la sentenza del 27 novembre 1990 con cui il Tribunale federale ha unanimemente stabilito che alle donne di Appenzello interno dovessero essere concessi i diritti politici, introducendo così, nell’ultimo Cantone svizzero a non averlo, il suffragio femminile per via giurisprudenziale.

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